La nuova storia di Bibione, che si trova in destra idrografica rispetto alla foce del fiume Tagliamento, è stata scritta grazie alle opere di bonifica dei terreni, realizzate dal mare all’entroterra e per tutto il territorio del comune di San Michele al Tagliamento ad opera del Consorzio comunale di Bonifica a partire dal 1904.
Il Consorzio, lungi dall’immaginare la nascita di un centro turistico estivo, si proponeva di debellare la zanzara anofele, causa della malaria, e di risanare la zona per rendere i terreni produttivi.
L’opera immane, che ha diviso il territorio in questione in sette bacini, ha così consentito il risanamento di una superficie complessiva di 10.670 ha nelle campagne da Cesarolo al mare, di cui 10.300 ha resi fertili e produttivi. Vennero inoltre realizzati 94 km di arginature in terra e calcestruzzo per la difesa dalle acque interne e dal mare. Nel comprensorio bonificato vennero costruiti ben 90 canali per una lunghezza totale di 208.5 km, con accanto altri 5.000 km circa di fossi per lo scolo dei singoli appezzamenti. Tra le opere di particolare importanza realizzate con la bonifica, una citazione meritano le infrastrutture viarie che hanno visto nascere nel comprensorio di San Michele al Tagliamento circa 80 km di strade pubbliche.
Nel 1930 il territorio del bonificando bacino evidenziava la presenza di una successione pressoché costante di dune sabbiose e di lame palustri che si estendevano fino al mare. Esse, aventi direzione parallela alla linea del lido, cioè est-ovest, per la maggior parte avevano un’altezza di 1-1.5 m, ma potevano anche raggiungere i 4-5 m.
In seguito alla costruzione dell’argine lungo il fiume Tagliamento, dalla Conca di navigazione alle dune in prossimità del Faro, il territorio venne difeso dalle acque del fiume e dalle maree.
Viste le discontinuità che le dune litoranee presentavano in qualche punto, il territorio risultava ancora soggetto alle alte maree, in particolare in corrispondenza del canale Rivelino (denominato anche Revelin o Rivilin o Revellino), già peraltro in quel periodo notevolmente interrato. Non è da escludersi che tale zona fosse storicamente comunicante con il fiume Tagliamento. Di certo le acque di quest’ultimo, anche in condizioni di piene non eccezionali, debordando si convogliavano a mezzo di quel canale naturale, che sfociava a mezzo di due rami nel mare, invadendo prima le lame più a valle e depresse.
Su tutto il territorio mancavano ancora le necessarie canalizzazioni, il che concorse alla formazione e al mantenimento di numerosi acquitrini nelle lame. Di conseguenza, risultava ancora impossibile una qualsiasi utilizzazione di quei terreni a scopi agricoli e un miglioramento igienico generalizzato.
Il VI° bacino, quello della località “Pineda”, rinominata poi Bibione, venne suddiviso in quattro zone distinte.
La prima, di ampiezza pari a 817 ha, era quella più prossima al fiume, costituita da terreni sui quali si erano riversate periodicamente le piene. In questa zona, oltre alla realizzazione del Canale Principale di scolo (in direzione sud-nord dalla lama del Rivelino alla località Cà Matta, in cui era prevista la realizzazione dell’idrovora), si disegnarono tanti fossi di scolo secondari quante erano le lame presenti. Si evitò quindi di scavare attraverso le dune sia per evitare pesanti movimentazioni di terreno, sia per non provocare un eccessivo inaridimento dello stesso.
La seconda zona, di ampiezza pari a 260 ha, era quella più distante dal fiume e si estendeva a ovest fino al canale Lugugnana (Porto Baseleghe). Il terreno, di natura fortemente silicea, non fu considerato adatto ad un miglioramento agrario e si progettò un rivestimento totale della superficie a bosco, come originariamente doveva essere. Anche qui vennero realizzati canali e fossi per assicurare lo scolo delle lame.
La terza zona, di ampiezza pari a 144 ha, era costituita dagli arenili e dalle dune più prossime al mare. Il progetto di bonifica prevedeva di congiungere le dune e di fissare le stesse con la piantumazione di essenze appropriate allo scopo di difendere i territori già bonificati dalla violenza dei venti, ricchi di salsedine e quindi dannosi per le coltivazioni.
La quarta zona, di ampiezza pari a 370 ha, era rappresentata dagli specchi d’acqua della valle salsa utilizzati con l’industria del pesce. Vennero effettuati lavori di sistemazione lungo l’argine del canale Lugugnana e di miglioramento delle condizioni igieniche e della produttività.
In quel periodo la viabilità del territorio non era ancora sufficiente.In esso si accedeva a mezzo della comunale S.Michele-Bevazzana.
Le arterie stradali esistenti non consentivano alcuna viabilità essendo prive di massicciate e di fossi di scolo. Si rese quindi necessario costituire una rete stradale adeguata all’aumento del transito, dovuto alla lavorazione dei fondi. Ogni strada fu costruita utilizzando il materiale ottenuto dallo scavo dei fossi laterali di scolo con l’aggiunta di piante di pioppo e di gelso lungo i cigli delle strade.
Il terreno necessitava di acqua per raggiungere condizioni igieniche soddisfacenti alla vita degli abitanti e condizioni agricole adeguate allo sviluppo di colture, in particolar modo durante la stagione siccitosa. Dato l’alto grado di salinità dell’acqua del fiume, adiacente al mare, fu necessario prelevare l’acqua potabile mediante pozzi profondi fino a 200m per la realizzazione dei sopra citati fini igienici ed agricoli.
Nella gran parte della prima zona e in tutta la seconda, erano presenti soprattutto esemplari di pino, intervallati da alcune latifoglie. Dal confronto delle mappe austriache con quelle italiane, si constatò che tra il 1846 e il 1933 la linea del mare si era spostata a seguito dei depositi di sabbie convogliate dal Tagliamento. Le dune, intercalate a depressioni paludose (lame) con caratteristica vegetazione palustre, comprendevano nella parte più interna una bellissima pineta in cui il Pinus nigra var. austriaca, essenza dominante, si mescolava a formare il sottobosco con lo Iuniperus communis, l’Ostria alba, la Clematis vitalba, il Ligustrum, il Berberis vulgari, la Phyllirea, la Lonicera, il Rhus, l’erica, ecc. Si notano ancora la Quercus ilex, il Fraxinus, l’Alnus glutinosa, varie specie di Populus e di Salix. La prima serie di dune verso il mare invece era del tutto nuda, salvo per qualche cespuglio di Ginepro, per qualche macchia di erica e per la copertura discontinua, sempre più verso il mare, della Psamma. Soprattutto nei laghi di Rivelino la pineta si ritirava lasciando maggior posto alla flora caratteristica delle barene.
L’intera vegetazione arborea, ed in particolar modo quella presente sulle dune, in seguito al periodo bellico (1915-18), subì non solo l’abbandono, ma una distruzione pressoché sistematica. La mancanza di vegetazione nel bacino da bonificare causò molti danni nei territori limitrofi già bonificati, in quanto non difesi dai venti impetuosi e ricchi di salsedine provenienti dal mare. Si rese perciò necessaria la ricostruzione del bosco originario con essenze che si ritennero appropriate quali il pino, la robinia e il pioppo. Molto indicate nelle dune più prossime al mare furono le piante di tamerici, mentre nelle dune più interne vennero seminate resinose come il pino da pinoli, il pino d’Aleppo, il pino marittimo, cipressi, lecci ecc. In totale vennero messe a dimora 625 piante/ha protette da recinti di filo spinato per evitare il danneggiamento ad opera di bovini ed ovini al pascolo.
Per ottenere il rinsaldo delle dune esistenti e una loro continuità, furono utilizzati dei paletti collegati da graticci di ramaglia intrecciata, in modo da arrestare le sabbie trasportate dai venti e avere quindi dei depositi di sufficiente altezza, per impedire anche alle acque del mare in burrasca la possibilità di invadere la terza zona.
La quarta zona fu interessata dalla bonifica peschereccia per 370 ha, 280 dei quali formanti la valle da pesca “Val Grande” anticamente chiamata “Val Molin”, dal nome dalla famiglia che in quel tempo la possedeva, e 90 ha formanti la Vallesina. La “Val Grande” costituiva uno specchio d’acqua che arrivava a più di 70 cm sotto il livello di Comune Marino. La “Vallesina” era invece in parte coperta da barene. Entrambe le valli erano attraversate da varie fosse, gorghi, fosse circondariali e peschiere di ibernazione, in particolar modo la “Val Grande”. La mancanza dei normali lavori di scavo che portarono alla lunga all’interramento degli specchi d’acqua, dovuti anche agli allagamenti causati dal fiume Tagliamento antecedenti la costruzione dell’argine, avevano in quel periodo ridotto notevolmente l’efficienza delle valli da pesca. Si rese quindi necessaria un’opera di manutenzione allo scopo di migliorare ed aumentare la produzione del fondo per poter conservare durante l’inverno il pesce e poterlo quindi smerciare nel momento in cui il mercato ne era maggiormente sprovvisto (gennaio, febbraio, marzo). Il materiale ottenuto con lo scavo delle fosse circondariali fu usato per la costruzione dell’argine divisorio tra la valle salsa e la bonifica agraria, nonché per la sistemazione del canale Lugugnana. Tramite una pompa centrifuga collocata in prossimità di quest’ultimo fu possibile mantenere un livello stabile d’acqua nelle valli, anche durante il periodo estivo, compensando in tal modo le perdite dovute all’evaporazione e assicurando così la vita del patrimonio ittico.
Lo smaltimento delle acque in eccesso nella restante zona di bonifica fu affidata provvisoriamente all’idrovora situata in località Cà Matta, con scarico nel fiume Tagliamento.
La perizia del 12 aprile del 1933 relativa al tratto che va dalla foce del Tagliamento fino al canale Rivelino prevedeva la pronta attuazione del rimboschimento per un totale di 115 ha senza l’ausilio di preventive opere idrauliche. Tuttavia il rimboschimento riguardò solo 65 ha. Il rimboschimento tendeva alla valorizzazione degli improduttivi, a migliorare esteticamente ed igienicamente lo squallido e piatto paesaggio e a ricostruire almeno in parte l’antica “Pineda”. L’ambiente fisico, sia dal lato del terreno, sia dal lato del clima e delle precipitazioni ben distribuite, venne considerato in quel periodo abbastanza favorevole al rimboschimento. Un temibile ostacolo rimaneva nel vento freddo, che determinava forti squilibri di temperatura assai dannosi alla vegetazione, oltre ad un’azione fisiologica e meccanica non positiva. I venti di scirocco, carichi di effluvi salini, avevano invece azione bruciante e deformante sulle giovani piante.
L’orlatura litoranea risultava essere bassa e discontinua, per cui si rese necessario il consolidamento della linea della spiaggia mediante la formazione di un cordone stabile da ottenersi con una densa fascia di tamerici, piantate a costituire una fascia di 30 m, con talee poste a 50 cm l’una dall’altra e a 60 cm tra fila e fila. Anche le aree più interne furono consolidate con tamerici e desalinizzate per permettere l’attecchimento delle specie forestali.
Vennero ubicati, inoltre, dei ripari frangivento costituiti per lo più da Saccarum ravennae, Juniperus communis, Evonimus japonica, così da difendere le nuove piantine dall’azione dei venti durante i primi anni di vita. I ripari artificiali, non essendo molto economici, furono sostituiti con specie a rapido accrescimento, preferendo specie di Arundo dislocate a una distanza di 80 cm l’una dall’altra. Dopo le opere preparatorie preliminari fu attuato il rimboschimento mediante conifere e latifoglie, a seconda dell’umidità del suolo. Venne data la preferenza alla semina diretta e non, con semenzali di un anno per ciò che riguarda i pini, in quanto le spese erano minori e il lavoro era molto più veloce. Per le latifoglie, invece, si optò per la piantagione in buchette. In entrambe i casi le piantagioni vennero fatte ad alta densità. Per le bassure palustri fu previsto di sistemare il terreno mediante mazzuolatura provvedendo, ove necessario, allo scolo delle acque. La superficie da mazzuolare nel 1933 pari a 7 ha fu aumentata nel 1934 a 8 ha.
Fu inoltre istituito un piantonaio provvisorio nell’esercizio 1934/35, al fine di collocarvi 40000 pini neri non ritenuti ancora adatti per la messa a dimora. Nello stesso periodo fu impiantato un orto forestale in “Pineta Caccia” su terreno (9000 mq) ceduto gratuitamente dalla S.A.P.I.D.E. per produrre in loco le piantine necessarie alle colture e ottenere quindi un maggiore attecchimento.
Carta storica
I lavori ebbero effettivamente inizio nel VI° bacino l’11 agosto del 1936. L’ultimazione dei lavori fu prevista per il 17 aprile del 1941 tenendo in considerazione le sospensioni durante le stagioni estive e invernali. Il collaudo delle opere di bonifica effettuato dal Magistrato alle Acque il 12 ottobre 1938 mise in evidenza le differenze tra i lavori eseguiti e i lavori stabiliti dal progetto.
Per quanto riguarda la piantumazione di Tamarix gallica sui 9 ha stabiliti dal progetto, essa fu in realtà assoggettata a tale piantumazione una superficie ben più ampia, pari a 15.25 ha. Tutto ciò per far fronte alla massiccia demolizione prodotta dal mare nel tratto litorale compreso fra la strada consorziale II e il Faro e fra il tratto dal Faro alla foce Tagliamento ed in parte all’invasione delle barene, per cui fu necessario proteggere una superficie più ampia. La barriera frangivento, prevista per un’estensione di 50 ha, in realtà non fu realizzata in considerazione della maggior estensione assegnata alle tamerici. ma anche perché non si ritenne prudente estendere le superfici coltivate in tal modo prima di avere una buona protezione dal mare.
Il rimboschimento mediante semina di resinose su 50 ha interessò in realtà 21.35 ha, sempre a causa della maggior estensione della superficie piantumata a tamerici. Non tutte le piante però attecchirono, ma solo il 50%. Il trapianto di resinose e latifoglie per 16 ha, stabilito in progetto, in realtà riguardò solo 6.75 ha, di cui 3.15 ha di pino nero (attecchito per il 70%) e 3.60 ha di robinia (attecchita per l’85%). Il problema che venne riferito in questo caso fu la forte moria delle piante. La mazzuolatura infine non fu eseguita, perché all’atto pratico fu ritenuta non opportuna.
La visita di collaudo del 25 giugno 1942, riguardante i lavori di rinsaldamento e rimboschimento del litorale “Pineta caccia”, mise in evidenza delle differenze dall’esecuzione dei lavori rispetto a ciò che era stato progettato. La piantumazione di Tamarix gallica riguardò solo 7.80 ha, per evitare ulteriori corrosioni marine, alle quali sopravvissero solo il 70% delle piante.
La barriera frangivento di Robinia pseudoacacia, anziché svilupparsi su una lunghezza di 23200 m, si sviluppò su 6000 m in fila semplice, in un’area di 40 ha. Le piantine morirono quasi tutte nelle vicinanze del mare a causa dei venti freddi di bora e, viceversa, di scirocco. Si auspicò quindi di piantare zolle viventi di Psamma arenaria, anziché di Robinia. La semina di pino domestico, che doveva riguardare 40 ha, in realtà riguardò solo 11.80 ha in cui, oltre alla già citata specie di pino, fu aggiunto il pino marittimo. La piantumazione fu ristretta a quei rialti dunosi non suscettibili di impaludamento e situati ad una certa distanza dal mare a tergo della prima duna. L’attecchimento fu prossimo al 70%. I trapianti di resinose e latifoglie riguardarono 14.90 ha, anziché 10 ha, con trapianti di pino paroliniano, specie sensibile ai trapianti e all’aridità, che diede tuttavia un attecchimento del 65%. L’ontano nero fu diffuso per 18.20 ha nelle zone depresse e soggette a impaludamento, con un buon grado di attecchimento, pari al 70%. Si rilevarono comunque problemi a causa della vicinanza con le falde freatiche salmastre. La mazzuolatura, prevista per 8 ha, fu omessa soprattutto nelle zone in cui era previsto il rimboschimento con l’ontano (lame e bassure), specie igrofila. Non fu possibile rimboschire una superficie depressa di 4 ha circa verso l’estremo est del comprensorio, chee nelle stagioni primaverili e autunnali, adatte a piantumare, si trovava costantemente inondata. Erano però previsti ulteriori lavori di canalizzazione per il prosciugamento dell’area al fine di rimboschire.
Bibione oggi
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